Amour - Michael Haneke (2012)
Forse il titolo più temerario
della storia del cinema. Parola isolata, senza articolo, come la si troverebbe
scritta in un dizionario. Ma Haneke non definisce, non circoscrive. Se, come ha
affermato, "Il cinema racconta menzogne a ventiquattro fotogrammi al
secondo" , quest'opera non fa eccezione. Eppure siamo di fronte ad un
regista che ha tentato come pochi altri di avvicinarsi alle convulse sembianze
della realtà.
Pur marcando insistentemente
l'inganno dello schermo, Haneke non ha mai sottovalutato il potere di
rifrazione delle sue storie. "Quando il saggio indica la luna, lo sciocco
guarda il dito" sostiene un noto proverbio cinese. Il cinema alle volte
somiglia a quel dito. Esige d'essere osservato, ma al contempo esorta a
distogliere lo sguardo, a rivolgerlo verso la Vita.
"Amore" come
attaccamento all' esistere, innanzitutto (per me). Tutti gli animali hanno
istinto di sopravvivenza, ma nell'uomo persiste qualcosa d'altro. Si ritiene
tanto insostenibile la vista di un cavallo stremato da decidere di ucciderlo;
si è propensi, davanti ad una bestia che soffre senza speranza, a considerare
la morte come una liberazione. Ma questa forma di compassione, nei confronti di
un altro essere umano, diviene "indecente".
La consapevolezza della nostra
esauribilità, della morte, ci rende creature tragicamente fragili. La mente
sempre vuole trovare un senso, così la finitezza della vita non smette di
procurare scandalo. C'è un momento indimenticabile in cui Ann, sfogliando un
album di fotografie, commenta: "E' bello vivere a lungo, avere una lunga
vita".
"Amore" come
inestimabile tenerezza, sospensione di antichi rancori e scambievoli
rammarichi, convivenza colma di gratitudine. Colazione in vestaglia, vicino
alla finestra, in una confortevole casa borghese, ordinata ma vissuta, alla
maniera intellettuale. La malattia di lei, temuta ma non del tutti
imprevedibile, sovverte non solo la serenità della coppia ma anche i ruoli che
essa sottende. Nell' immaginario comune è la donna che sostiene, che si prende
cura, che abbraccia, che è madre nel senso più ampio. Io stessa, osservando mia
nonna badare per mesi al marito infermo, percepivo soprattutto una
straordinaria naturalezza. Al contrario un uomo che sorregge la compagna offre
un quadro per me inconsueto, che destabilizza e commuove. La scena in cui
Georges goffamente aiuta la moglie a rivestirsi nel bagno mi si è conficcata
nello stomaco.
"Amore" come
isolamento. Appare chiaro fin da subito che Georges e Ann sono soli e che da
soli combatteranno il dramma. La figlia non vi partecipa concretamente, più per
soggezione che per indifferenza. La sua fallimentare esperienza matrimoniale le
rende ancora più evidente e dolorosa l' alterità dei genitori. I due insieme
costituiscono un mondo segreto di desiderata solitudine. Georges rifiuta o
accetta a malincuore aiuti esterni, fa di tutto per sottrarre il dolore suo e
di Ann alla vista altrui. "Tanto non capirebbe" dichiara alla badante
incompetente, ma è un messaggio rivolto a tutti.
"Amore" come
responsabilità. Ad un certo punto Ann parla apertamente con Georges della
propria condizione. "Vivere così non ha senso", "Non voglio".
Sono parole asfissianti.
Ann vuole imparare a staccarsi
dalla vita fin tanto che è cosciente. Inizia anche a rompere il legame con la
musica, qualcosa che è troppo vibrante, palpitante, vivo.
Georges rimanda disperatamente il
confronto con la volontà della moglie. Quando lei si rifiuta di mangiare e
bere, lui la colpisce con uno schiaffo. Da questo istante diventa esasperante
per lo spettatore l'attesa del gesto cruciale.
Poi arriva, ed è la scena- firma
di Haneke: improvvisa, brutale, tachicardica. A seguire un rilascio rapido di
tensione.
Un piccione s'intrufola in casa
per la seconda volta. Georges chiude le finestre, lo cattura con una coperta,
fa per soffocarlo. E' una sorta di confessione, quasi dicesse all'animale:
ecco, questo Le ho appena fatto.
Resta il sogno di una
resurrezione, la speranza che il nastro si riavvolga.
(novembre 2012)
(novembre 2012)
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