Le lacrime amare di Petra Von Kant - Rainer Werner Fassbinder (1972)


Associo l'amarezza alla coscienza d'aver intessuto rapporti mediocri, a scopo riempitivo, consolatorio, suppletivo di una qualche miseria intima. A volte ci si aggrappa ferocemente a qualcuno solo per possederlo, si vorrebbe che fosse piccolo abbastanza da metterlo in tasca, come uno di quei feticci irrinunciabili la cui mancanza improvvisa genera panico. Nel momento in cui Petra Von Kant viene rigettata da Karin soffre indicibilmente, nella maniera femminile della nevrosi, della convulsione del corpo e della parola. Non tollera eppure abbraccia avidamente il dolore, perché è ciò che tiene in vita l'immaginario del suo amore. Ho il dubbio che nel momento in cui grida "io ti amo e per questo sto così male", Petra intenda in realtà "io non ti amo e per questo sto così male". Sia Petra che Karin sono a mio parere vittime volontarie ma inconsapevoli di una mascheratura, di un inganno reiterato per così tanto tempo e con tale convinzione, da essersi fatto verità. Verità scadente e più dolce che non può durare a lungo. L'ultima sequenza, una delle più belle che il cinema ci abbia mai regalato, mostra Marlene, la serva afasica e onnisciente, lasciare la casa portandosi dietro una bambola nuda, quasi fosse una pietosa effigie-ricordo della sua padrona. Petra Von Kant, la stessa figura che all'inizio del film tiranneggiava nella dimora-gineceo, persuasa della propria levatura, si stende sul letto al buio, accompagnata dalle note amare di "The great pretender".
Mi vengono in mente i ritratti di solitudine di Edward Hopper, specie quelle donne colme di rassegnazione abbandonate al bar, accasciate vicino al letto disfatto, rivolte verso la finestra. Tutte sembrano aver dimenticato la ragione per cui vale la pena alzarsi e camminare.


"Mi faccio piangere per provare a me stesso che il dolore non è un'illusione: le lacrime sono dei segni, non delle espressioni". (R. Barthes)



(luglio 2012)

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