Decalogo 5 - Krzysztof Kieślowski (1988)
Un’ altra emersione dagli abissi umani, un racconto
struggente sulla morte come delitto, incidente, condanna. All’ interno della
serie scritta da Kieslowski e Piesiewicz, “Decalogo 5 – Non uccidere” si
distingue per la forte tinta socio-politica dei contenuti, ma anche per la resa
visiva volutamente divergente. L’ angoscia, vera sostanza atmosferica della
pellicola, è battezzata sentimento stilistico: le inquadrature sono soffocate
da una cornice atra, deturpate da una sgradevole cromia gialla. Varsavia sembra
paralizzata negli attimi che precedono il tramonto, abbacinata da un’ ultima
violenta esplosione di luce. Gli edifici e i corpi subiscono riverberi
verdognoli, quasi espressionisti.
L’ intreccio narrativo per l’ appunto intreccia. Tre i
personaggi principali: il ventenne Jacek, il tassista, il giovane avvocato
Piotr. Nella parte iniziale le loro vite scorrono disunite, talvolta
simultanee, talvolta asincrone. Ma netta è la sensazione che siano in qualche
modo simmetriche, destinate ad urtarsi.
Lo spettatore è chiamato ad intuire, a registrare gesti,
parole, espressioni. I dettagli pulsano, i profili iniziano ad affiorare dalla loro perturbante
complessità.
Studio di Jacek
Ci imbattiamo in Jacek mentre girovaga per le vie cittadine
in cerca di un taxi. Incontri fortuiti:
un gruppo di teppistelli, una vecchia
burbera, un artista di strada e la sua piccola modella. Qualche scena più avanti lo vediamo
appoggiarsi a un cavalcavia e spiare la stazione dei taxi dietro di sé. Sta
elaborando un’ idea precisa, ma una pietra distoglie la sua attenzione. Con un
tocco leggero la fa precipitare nel vuoto, giù nella trafficata strada
sottostante. Udiamo vetri che si rompono, clacson impazziti. In seguito
percuoterà un ragazzo nel bagno pubblico, sputerà nella tazzina dopo aver
bevuto il suo caffè. Jacek esterna disprezzo, appare nauseato da qualcosa,
forse dal fardello di un ricordo. Ad un certo punto decide di far ingrandire la
foto di una bambina. Alla commessa dello studio fotografico chiede: “E’ vero
che da una foto si può capire se uno è vivo o no?” Sentiamo che il presente è una patina
sottile, il passato una massa incandescente.
Ritroviamo Jacek in
un bar. Scherza con due ragazzine al di là della vetrina, ed è ermetico ma
significativo quel suo sorriso di penosa dolcezza. Qualche istante dopo,
nascosto dal tavolino, si attorciglia la
mano con una corda bianca.
Ritratto del tassista
Il tassista, uscendo di casa, viene quasi colpito in faccia
da uno straccio caduto dall’ alto. Chiede ad un condomino se sa di chi sia,
sottintendendo che gli è stato gettato addosso di proposito. L’ ingresso nella
storia denota subito il fare astioso del personaggio. Le sue comparse
successive ce lo confermano: prima sghignazza compiaciuto verso una garzoncella
in abito corto, poi lascia a piedi una coppia infreddolita. Crediamo di
scorgere un briciolo di amabilità quando rinuncia al pranzo per darlo ad un
cane randagio. Ma poco dopo, in tediosa attesa fra gli strombazzi della
città, spaventa divertito due cagnolini
al guinzaglio.
Siamo di fronte ad un uomo frustrato, disgraziatamente
anonimo, annichilito dalla noia. A placarla becere birichinate, piccoli insulsi
atti quotidiani.
Ritratto di Piotr
Incontriamo Piotr pochi istanti prima dell’ esame da
procuratore. Impaziente, sigaretta alla
mano, ripercorre con la mente i passi di un discorso. Finalmente viene accolto
in aula, e si è colpiti dal suo fremente entusiasmo, dal graffio educato ma
puntuale con cui sottolinea la
fallibilità della “macchina della giustizia” e la funzione “intimidatoria”
della condanna. I frammenti dell’ oratoria tratteggiano un animo limpido,
caparbio. In questa fase della narrazione Piotr è il personaggio più statico e
insieme il meno inibito: lo si vede di rado, seduto davanti ad una tazza di tè,
nell’ unica azione del parlare. La voce oltrepassa le pareti, invade e in
qualche modo delinea le vie di Varsavia,
le stesse percorse da Jacek. I due giovani non si conoscono ancora, eppure sono
già idealmente legati. Suona profetica una frase di Piotr: “(questa
professione) E’ interessante perché mi permette di conoscere e capire persone
che altrimenti non incontrerei mai”.
Delta di vite
La svolta cruciale della storia corrisponde ad un evento di
sangue: Jacek uccide il tassista, Piotr assume la difesa giudiziaria.
Innanzitutto val la pena soffermarsi sul delitto, sulla straordinaria cura
registica in questo frangente di massima tensione. Non assistiamo ad un
omicidio “pulito”, rapido, da professionisti. Quando il tassista, forse avendo
notato un passante, suona il clacson con insistenza, Jacek va nel panico.
Assicura al sedile la corda bianca con cui sta strangolando la vittima e cerca
di staccarle la mano dal volante. Ci riesce, ma l’ andatura rumorosa di un
treno rompe nuovamente il silenzio della vallata. Jacek percuote l’ uomo con
una spranga. “Oh Gesù” sussurra, vedendo i rivoli vermigli sul volto che gli è
di fronte. La morte tarda beffardamente a sopraggiungere e Jacek, prima di
gettare il corpo in una pozza, è costretto a finirlo con una grossa pietra.
Quindi torna nel taxi, cercando di sopprimere il terrore con un atteggiamento
di fredda disinvoltura: mangia qualcosa, accende la radio. Presto però la gaia
canzoncina diventa insopportabilmente grottesca.
Kieslowski non censura nessuna fase della vicenda,
costringendoci a vedere tutto, ogni titubanza di colui che uccide e ogni
convulsione di colui che sta morendo. Noi siamo lì, testimoni oculari
onniscienti. L’ obiettivo della cinepresa reclama l’ obiettività del nostro
sguardo.
“E’ tutto finito
signor avvocato?” chiede Jacek. “Finito”
risponde Piotr. Sono in un tribunale, un anno dopo. Jacek è stato condannato
alla pena capitale. Piotr è turbato dal fallimento, si chiede se abbia fatto
tutto il possibile. Scopriamo che il giorno dell’ esame era stato nello stesso
bar in cui Jacek maneggiava la corda. Piotr sente su di sé il peso della
responsabilità, come avvocato e come uomo.
“Oggi lei è diventato un po’ più vecchio” gli annuncia con benevola
saggezza un vecchio giudice.
Le ore che precedono l’ impiccagione sono scandite dai
consueti preparativi. L’ allestimento minuzioso dell’ esecuzione, la calma con
cui la guardia carceraria svolge le mansioni, la comparsa sulla scena di un’
altra corda bianca percuotono l’ emotività dello spettatore.
Jacek intanto ha chiesto di parlare col suo avvocato.
Verremo a sapere che da poche ore Piotr è diventato padre: nascita e morte si
abbattono trasversalmente su di lui quasi nello stesso momento. In tutto il
“Decalogo” il caso non disegna tracce casuali, piuttosto segue una logica di
contrasti, percorre i solchi di un’ ironia sempre sprezzante, quando non
crudele.
Ritratto di Jacek : il “non finito” di Krzysztof
Il dialogo fra Piotr e Jacek offre la possibilità di
accendere l’ interruttore. Fino a questo momento ci siamo mossi a tastoni in
una dimensione ambigua, costellata di indizi, rischiarata dall’ evidenza di
alcuni fatti, ma pur sempre incompiuta e disorientante. C’è un profilo ancora
abbozzato, un elemento impalpabile che disturba: Jacek: chi è davvero? I due Krzysztof sceneggiatori sono troppo rispettosi delle
zone sfumate della realtà per dare una risposta univoca. Ci concedono un
ritratto coerente ma “non finito”, una sagoma riconoscibile ma schiusa.
Parlando, ponendosi come oggetto di ascolto, il personaggio
di Jacek trasfigura la propria consistenza: prima animale schivo, ora individuo
vibrante. Piotr, dal canto suo, si fa amico silenzioso, composto ma partecipe.
Fra i due uomini viene a stabilirsi lentamente una connessione fraterna.
Jacek prega Piotr di occuparsi della madre dopo che sarà
morto, quindi esprime la volontà di essere tumulato vicino al padre e alla
sorellina. Marysia, racconta, giace nel cimitero da cinque anni, dopo essere
stata investita in mezzo a un prato da un trattore. Il ragazzino alla guida si
era da poco ubriacato insieme a Jacek. Ecco, l’ interruttore.
Il gioco dell’ impiccato
Gli ultimi anni di Jacek prima della condanna paiono far
parte di un crudele gioco dell’ impiccato. Egli ha cercato disperatamente di
risolvere l’ enigma del proprio dramma, sino ad esaurire i tentativi.
L’ oscenità che spesso investe la morte obbliga ad
interrogarsi su quella che è forse la più banale (e dunque la più difficile)
delle questioni umane: il senso. La morte brutale di Marysia rivela la
convivenza di due forze: una legata alla
volontà individuale; l’ altra burattinaia, ignota, fatale. Jacek si convince d’ essere come quell’
Achille zenoniano che non può mai raggiungere la tartaruga. A che pro agire in
base a determinati valori se correre a fianco del caso non si può? E com’è
possibile che il caso (o Dio) punisca senza pietà i passi falsi dell’ uomo
durante la corsa? Intuiamo che Jacek non ha trovato risposte a queste domande,
né si è rassegnato con serenità al dubbio. Ha riprodotto sulla propria anima
gli strappi intravisti nella realtà, si è ribellato attraverso il disprezzo,
ha ammazzato l’ atro per squarciare se
stesso.
“Il signor direttore
e il signor procuratore chiedono se siete pronti”. Così viene interrotto il
colloquio fra Jacek e Piotr. La risposta di quest’ ultimo è esasperata: “Io non sarò mai pronto. Glielo vada a dire
al signor procuratore”. Il tempo è ormai scaduto e Jacek viene prelevato dalla
cella per essere condotto al patibolo. “Non voglio” mormora, divincolandosi per
sfuggire alla presa delle guardie. Sul volto leggiamo i segni lasciati dalla
prigionia, da quell’ attesa atroce che porta con sé un eccesso di
consapevolezza. Jacek è come chi, svegliandosi di colpo la notte, adocchia
accidentalmente le lancette della sveglia, ed è sorpreso dall’ agonia di sapere
quanto sia tardi.
Viene data lettura della sentenza, un excursus di date e
codici spaventosamente formale. Al condannato è concesso di fumare un’ ultima
sigaretta, ma gli spasmi della paura sono incontrollabili. La benda viene legata agli occhi, il cappio
regolato al collo, la botola aperta sotto i piedi. Tutto si svolge con
pragmatica fretta, e ancora una volta Kieslowski ci chiama a conservare ogni
istantanea. Stavolta sì, assistiamo ad una morte “pulita”, inflitta in tempi
brevi e senza eclatanti imprevisti, secondo la deontologia professionale.
Il film si chiude con le grida reiterate di un Piotr ormai
sfinito, disincantato, sconfitto. “E’ rivoltante!” .“E’ intollerabile!”. Sono
parole volutamente enfatiche, eccedenti, quasi superflue, una pecca di sceneggiatura necessaria.
“Decalogo 5” è stato
trasmesso dalla televisione polacca nel 1990. La Polonia ha abolito la pena di
morte nel 1997.
Violato da due penne laiche, il quinto comandamento biblico
ha oltrepassato la sua valenza imperativa, si è fatto scherno per chi ha
ucciso senza volontà, sfida per chi ha
ucciso per disintegrarsi, vergogna per chi ha ucciso in nome della legge.
Post scriptum
Occhi che danno l’ impressione d’ aver visto tutto e di poter vedere tutto: il personaggio muto del “Decalogo” qui compare nelle vesti di un operaio. Incrocia Jacek poco prima del delitto, Piotr poco prima dell’ esecuzione. Quello sguardo fisso, combinazione straordinaria di gelidezza e complicità, instilla compassione nel nostro. Sembra scorgere le venature più eclissate dei cuori, fotografare le lacerazioni più dolorose ancora prima che vengano inferte.
(febbraio 2013)
Ciao Chiara,
RispondiEliminabellissimo questo acquazzone di parole, e bellissimo il film a cui è dedicato.
Descrivi molto bene la scena dell'omicidio, ricordo che rimasi ghiacciato, altro che Roth e Tarantino. Molta parte del cinema odierno ci ha desensibilizzato alla morte, specie quando è inferta, mentre Kieslowski ha tentato di risvegliarci dal nostro torpore morale. Per non parlare del primo episodio, che al netto dei 3 che mi mancano rimane il mio preferito: lì la morte non si vede, ma è ugualmente terrificante.
Molto vergognosamente mi permetto di linkarti un mio vecchio post su 35 Shots of Rhum di Claire Denis, un film che secondo me ha delle inaspettate somiglianze con l'episodio 4 del Decalogo.
Grazie per l'ospitalità e complimenti per il blog!
Ciao Ivan, innanzitutto grazie per essere passato di qui!
RispondiEliminaIo ho visto i film del decalogo kieslowskiano, con poca distanza l'uno dall'altro, ai tempi di questo scritto, quindi a cavallo tra 2012 e 2013. La memoria fa già cilecca, ma fu una vera esperienza, altalenante, sorprendente, nel complesso magnifica.
Ho letto il tuo pezzo e ora vorrei tanto trovare 35 Shots of Rhum, magari coi sottotitoli in inglese. All'inizio quando ho visto che scrivi in inglese mi sono un po' spaventata, ma hai una scrittura molto limpida ed è stato inaspettatamente facile arrivare alla fine. Il paragone che fai con Decalogo 4 mi sembra fondatissimo! Complimenti per l'acutezza :) Altro che vergogna, è stato un piacere. Alla prossima!
Grazie a te Chiara per aver fatto lo sforzo di leggere fino in fondo! Scrivere in inglese non fa di me un esperto in materia eh, semplicemente per qualche motivo mi trovo più a mio agio ad esprimermi in una lingua che non è la mia (vai a capire le contorsioni della mente).
RispondiEliminaAllora se ti capita di vederlo fammi sapere che ne pensi!
Buona continuazione, Ivan