Room - Lenny Abrahamson (2016)
Rimugino sull’ultimo giorno nella
mia ultima casetta universitaria. Il denudamento della camera, l’ammonticchiare
in buste e scatole, lo scollare le carte dalle pareti, lo strappare via le
lenzuola dal letto. E infine il serrare la finestra, il fissare le scuri: vedere
il rettangolo del cielo diventare via via più stretto, farsi fenditura, traccia
d’ombra tra il legno e il vetro. Un atto violento, visivamente e acusticamente
potente. Bam, buio. Poi la luce artificiale che illumina i fagotti sparsi sul
pavimento, il bianco giallastro dell’aria, lo spazio restituito al vuoto. La
consapevolezza di un lampo secolare che si spegne, il crollo di un incantesimo
vissuto insieme a tre ragazze e una cagnolina clandestina. Resta tempo per ancora
un giro, quello finale, di perlustrazione e accettazione. Chiudere il gas, controllare
i cassetti l’ennesima volta. Eccoci, dunque, al commiato: dire ciao mentalmente ai pochi oggetti rimasti, uno ad uno, ripensare quelli mancanti nelle loro
antiche dimore. Uscire, una porta che si chiude, il portone del mondo che si
spalanca. Vertigine, come quando Jack si affaccia dalla finestra della
stanza d’ospedale; panico, come quando Joy tenta il sonno eterno. Mascherato da
fattaccio in pasta di cronaca nera, “Room” è piuttosto il racconto di due
svolte esistenziali. L’una giunta prematuramente, rivelazione propriamente
fisica, di sfacciata concretezza; l’altra assopita per sette anni, costretta ad
una devastante esplosione tardiva, di subdola vaporosità. Matura bellezza in questa
duplice manifestazione, almeno in parte, il film di Lenny Abrahamson, regista che ho già
avuto modo di apprezzare altrove. Ritrovo, in una chiusa splendida, il senso
stesso del venire al mondo: shock che reiteriamo continuamente sin dalla
nascita. Cos’è crescere, se non salutare gli oggetti di una stanza.
(marzo 2016)
(marzo 2016)
La passione nella tua scrittura si abbevera dalle stesse fonti della Gertrud di Dreyer. Impossibile non essere affetti da ciò che si legge.
RispondiEliminaE vabbeh, niente
RispondiEliminaBello leggere che anche tu sei andato oltre. Non che avessi dubbi ;)
RispondiEliminaCiao Chiara,
RispondiEliminaHo vissuto la tua stessa esperienza.
5 anni in una città che non era la mia, 5 anni in una casa che non sono mai riuscita a sentire mia.
Nonostante il rapporto altalenante con il mio nido fuori sede, fatto più di dolori che di gioie, il giorno che ho fatto le valigie, ripulito il buco di camera che avevo, svuotato i cassetti della cucina da merendine, sughi pronti e altre schifezze varie, mi sono sentita terribilmente triste. Ci sono voluti diversi minuti prima di riuscire a chiudere la porta definitivamente, con i miei genitori che da sotto le scale mi urlavano di scendere.
Avevo trascorso 5 anni in quella casa, mica 5 minuti! e nonostante non vedessi l'ora di scappare ad ogni festa, weekend e ponti vari, chiudere quella porta è stato come chiudere una parte della mia vita.Doloroso.
Ho fatto delle foto con il telefonino, cosi, per ricordarmi di quella piccola casetta che ho condiviso con due ragazze che non diventeranno mai mie amiche.
Il telefono si è rotto. Le foto sono andate perse. Ed il ricordo riemerge solo ora, dopo la lettura della tua rece. Non pensavo a quella casa da tempo ormai.
Anch'io mi sono sentita un po Jack nell'ultima scena, ed anche Jack come me dimenticherà quella stanza.
Ps: è la prima volta che scrivo sul tuo blog.
È molto interessante, profondo e personale.
A presto :)
Ciao Rachele, grazie per la visita :)
RispondiEliminaIo ho vissuto nella casetta di cui scrivo nel post per due anni. Prima ho sperimentato altre tre diverse esperienze di "coinquilinaggio". Tutte più o meno sfortunate, tutte più o meno dolorose, addii amari e difficili. Poi niente, è successo un patatrac, e dopo le cose sono andate cambiando per forza. Ho scovato quella casa, ho scovato quelle persone: c'ho passato alcuni dei giorni più carezzevoli della mia vita. Un incantesimo, una bolla d'illusione per certi versi. Ci abbandonava anche la voglia di uscire; cresceva invece quella di ospitare, tanto era familiare, calda e "nostra" l'aria che vi si respirava. Chiudere quella porta ed uscire è stato, è, venire al mondo di nuovo, tanti anni dopo la prima nascita, quando ho salutato la stanza che era il ventre di mia mamma.
A presto Rachele, e grazie per questo tuo personale commento, apprezzo molto. :)