De Jueves a Domingo - Dominga Sotomayor Castillo (2012)
Nella penombra della camera Lucia
viene prelevata dal suo letto, poi caricata in un' auto accesa. Lei, appena
adolescente, il fratellino e i genitori stanno partendo per le vacanze. L’occasione
lieta non dissolve un vago senso di minaccia. Posso quasi sentire, memore di
tante “fughe” notturne, il torpore stizzito del corpo, lo stomaco lamentoso, il
cuore spaventato. Capirò man mano, tramite i sensi recettivi della giovane
protagonista, che sarà, sarà stato, un viaggio da ricordare.
Immagino una mappa del Cile,
Paese dalla forma eccezionale, lunghissimo ed esile come una scultura di
Giacometti; immagino un puntino che si muove verso l’alto, la station wagon
impolverata che trascina la famiglia verso il Nord. In una voluta confusione di
piani prospettici, me la figuro aggrappata alla strada, come uno scalatore alla
montagna, sempre sul punto di scivolare indietro.
Quasi a cavalcare la mia fantasia, in una scena qualcosa vola via dal tettino, costringendo i passeggeri a fermarsi per raccattarla. C’è un costante sforzo di trazione, e insieme una spinta a precipitare. Penso a quell’oggetto rotolato a terra, mentre osservo Lucia distesa sopra l’auto, in un gioco imprudente che a me non è stato mai concesso. Si sporge in avanti, assaggia un punto di vista rischioso, vede madre e padre che discutono, nell’abitacolo, a testa in giù. Sempre attraverso i suoi occhi, le sue orecchie, annoto uno sguardo spigoloso, colgo la carezza troppo intima che un amico dà alla mamma, afferro stralci di ambigue conversazioni.
Percepisco di Lucia la paura intuitiva di cose ancora ignote, il sentore di pericolo che non la fa dormire. Con lei rivivo persino, per qualche istante, lo stordimento tipico di quell’età. Ricordo quanto fosse ancora facile accendere l’entusiasmo, bastava che ti lasciassero sedere davanti, vicino al guidatore, così d’ammirare il mondo prima che ruzzolasse ai lati, sopra la testa, sotto i piedi. Eppure già mancava la sbadataggine infantile, la distrazione capace di sfocare i sintomi di un dramma adulto.
Quasi a cavalcare la mia fantasia, in una scena qualcosa vola via dal tettino, costringendo i passeggeri a fermarsi per raccattarla. C’è un costante sforzo di trazione, e insieme una spinta a precipitare. Penso a quell’oggetto rotolato a terra, mentre osservo Lucia distesa sopra l’auto, in un gioco imprudente che a me non è stato mai concesso. Si sporge in avanti, assaggia un punto di vista rischioso, vede madre e padre che discutono, nell’abitacolo, a testa in giù. Sempre attraverso i suoi occhi, le sue orecchie, annoto uno sguardo spigoloso, colgo la carezza troppo intima che un amico dà alla mamma, afferro stralci di ambigue conversazioni.
Percepisco di Lucia la paura intuitiva di cose ancora ignote, il sentore di pericolo che non la fa dormire. Con lei rivivo persino, per qualche istante, lo stordimento tipico di quell’età. Ricordo quanto fosse ancora facile accendere l’entusiasmo, bastava che ti lasciassero sedere davanti, vicino al guidatore, così d’ammirare il mondo prima che ruzzolasse ai lati, sopra la testa, sotto i piedi. Eppure già mancava la sbadataggine infantile, la distrazione capace di sfocare i sintomi di un dramma adulto.
E’ un bel momento, agli sgoccioli
del racconto, quello in cui padre e figlia decidono che si deve tornare a casa:
che si deve mollare la presa, che non si può più fingere. Ingoiata da uno
stupefacente semideserto, l’auto prende la discesa verso il Sud. Dentro i grandi, arresi alla compagnia dei loro grandi
guai; sul tetto i piccoli, pronti a consumare una piccola scorta di pregiata spensieratezza.
http://streaming.filmtvod.com/dagiovedi
(agosto 2016)
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