Little Joe - Jessica Hausner (2019)
Quotidianamente ripetiamo le spole rituali tra le nostre case e i luoghi del lavoro, del consumo, del piacere, del culto, dell’incontro, spinti da piccoli o grandi bisogni, da piccole o grandi incombenze. Incombenze tutte differenti, eppure tutte afferenti a un unico, tirannico dovere: il dovere di essere felici.
“Enjoy”, “be happy”,
“smile”, “scialla”, “cogli l’attimo”. Sottrarsi agli imperativi della felicità
sembra coincidere con uno spreco irrimediabile della vita. Qualcuno si leva, di
tanto in tanto, dalla folla laureanda in Felicità, per lanciare esortazioni del
tipo: “è normale soffrire, senza sofferenza non esiste felicità”, “la felicità
è nelle piccole cose”. Ci sentiamo, lì per lì, rincuorati, noi che siamo tutti,
chi più chi meno, fuori corso, in questa sorta di accademia esistenziale. Ma
presto ci riassale l’angoscia di doverla conquistare comunque, la felicità, un
giorno, o addirittura ogni sacrosanto
giorno, e ovunque.
Nel film di Hausner, “Little Joe” è una pianta che promette, a chi la accudisce, non soltanto una “little joy”, come fa un cactus o un’orchidea, ma l’appiattimento del dolore e della rabbia, una panacea materna per l’affanno e la depressione. Senonché Alice, artefice della strabiliante creatura, viene pian piano assalita dal sospetto che quel benessere sia in realtà il sintomo di un’infezione virale.
Più assimilabili a dei dispositivi smart che a degli esseri viventi, le “Little Joe” vengono venerate come madri divine dai presunti contagiati, che ne diffondono il dna (forse) e il verbo come in una vera e propria pratica di catechesi. Non solo, gli individui ritenuti infetti appaiono irriconoscibili ai loro cari, assorti in una beatitudine perenne, vagamente imbecille, senza ondulazioni e, ancor peggio, senza vere testimonianze di affetto.
In una scena, il marito di una volontaria che ha partecipato ai test sperimentali di “Little Joe” prova a descrivere il cambiamento avvenuto nella donna: “Non le andava mai bene niente, ma sapevo che mi amava. Ora è gentilissima con me, ma…”. È un frammento molto bello, ironico e agghiacciante, per me toccante, malgrado un film che preferisce una relazione controllata con lo spettatore.
Ecco, questo, più di
tutto, mi ha folgorato, in un racconto su cui si può rimuginare tanto e a lungo:
l’idea che la felicità possa essere un germe, non una benedizione, ma soprattutto
una deformazione innaturale, capace di smussare tutti i nostri spigoli, fino a
renderci scivolosi e inconsistenti. Magari amabili, ma inetti all’amore.
(gennaio 2021)
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