Il regno d'inverno - Nuri Bilge Ceylan (2014)



Un film di personaggi che danno le spalle. Una delle prime immagini che compaiono sullo schermo è la schiena di Aydin, mentre guarda fuori dalla finestra (altra posa frequente, carica di suggestioni). Durante il primo teso dialogo tra Aydin e Nihal ad un certo punto li vediamo riflessi su uno specchio. I due, scopriremo poi, sono finalmente l' uno di fronte all' altra, pur senza guardarsi. Ma per tutta la durata dell' inquadratura "riflettente" si ha l' illusione che, appunto, si stiano ancora dando le spalle. Quando Aydin e Necla discutono, lui è seduto alla scrivania, davanti al computer, mentre lei, dietro, è stesa sul divano. Corpi che si oppongono, mentre parole parole parole scorrono tra loro.

Aydin appare sempre solo sulla scena. E' un uomo esclusivista, che si esclude e che esclude. Si profonde in accondiscendenti conversazioni con i clienti, ma anche a loro riserva un atteggiamento di gentile sufficienza. Vedi il motociclista, che non entra mai nel campo di Aydin, ed è sostituito, grazie alla particolare angolazione, dalla forma sfocata di una colonna. Colonna che, nei campi totali, fa da barriera tra i due dialoganti.

Ceylan ha dichiarato in un' intervista di essersi ispirato a diversi racconti di Cechov. Conosco Cechov solo attraverso poche opere teatrali. Due cose però, riguardo a questo autore, credo di averle intuite. La prima: tutto ciò che è umano è contraddittorio. La seconda: dramma è immobilità. Vorrebbero cambiare, le creature cechoviane, trasferirsi in città, essere amate da chi amano, e morire nell' attesa, lavorare anziché poltrire, poi poltrire anziché lavorare. Vorrebbero uno stravolgimento qualsiasi, un guizzo improvviso che interrompa la solita terribile solfa. Ma neanche le catastrofi concedono ribaltamenti; l' incendio in "Tre sorelle" riconsegna tutti alle stesse misere vite (idem il terremoto in "America oggi" di Altman, che amava Carver, che amava Checov).
"Winter sleep", come del resto il titolo suggerisce magnificamente, è una tragedia sulla fissità (altro che Shakespeare). Ceylan visivamente ce lo indica in continuazione, ci tafana come un' insetto dispettoso. Si è parlato di verbosità, di letterarietà strabordante, ma si noti quanti piccoli fondamentali dettagli, in questa opera ricchissima, stuzzicano lo sguardo.
Le luci. Calde negli interni, consolatorie e soffocanti; fredde, bianche e abbaglianti negli esterni innevati. Una lotta continua tra il calore ingannevole, mortifero, dello spazio familiare, e il freddo pungente, vivifico, dello spazio naturale.
I gesti. Troppi quelli da menzionare. Su tutti: Aydin che cattura un cavallo, Aydin che lo libera, Aydin che uccide una lepre. La triste penosa incoerenza delle pulsioni verso l' altro.
Lo scenario. Case scavate nelle rocce: c'è forse un modo più potente per dichiarare la consistenza petrosa di questa umanità?


All' uscita dal cinema, ancora inaspettatamente arzilla, ho riconosciuto una mia cara zia con consorte. Baci e abbracci, quasi non ti riconoscevo, sei cresciuta! Vero che è cresciuta?, non credo, come stai?, tutto bene, core se tira a campà. Poi, piccole note sul film: "(Ceylan) Ci ha strizzato per bene!". Legittima constatazione. "Ma secondo te chi ha ragione? Ce lo chiedevamo io e R., e ci siamo detti che non ha ragione nessuno" . Un commento ingenuo e intelligente, che racchiude bene il senso del film. I cattivi (Aydin? Ismail?) e i buoni (Hamdi? Nihal?) hanno tutti le loro ragioni, ma tutte concorrono al fallimento, al ritorno dell' uguale, al sonno letargico. Il piccolo Ilyas, un po' l' Iljusa de I fratelli Karamazov, che con quel sasso, all' inizio, ha solo accelerato una frana in corso, sfugge ancora per poco alle logiche adulte della sopravvivenza. E' un superstite, ma in divenire.



(novembre 2014)

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