Ethos - Berkun Oya, Ali Farkhonde (2020) [serie tv]
Rispondere
non è mai parso così difficile. Ci sono, in “Ethos”*, domande seguite da
estenuanti attese, ulteriori interrogativi o riscontri incongruenti; tante e
prolungate fissità di sguardo, che nulla hanno a che fare con gli enfatici
congelamenti di espressione delle soap opera, spopolanti in Turchia.
A indugiare, apparentemente
catatoniche, sono soprattutto le donne, donne che, nella metafora pensata da
una di loro, sono come immerse in un acquario: libere e recluse, protette e
sorvegliate. Nuotano tra abisso e superficie, in una quotidianità di eventi
psicosomatici, lapsus linguistici, atti vendicativi, bugie e tante sigarette;
alcune indossano il velo, altre no, e sembra inserirsi, in questo discrimine
esteriore, una discriminazione profonda, dolorosa, insoluta.
La
regia insiste molto, del resto, sul vestiario. In una scena, Peri, la
psichiatra, mentre aspetta senza speranza l’arrivo della paziente Meryem nel
proprio studio, indossa un maglioncino azzurrino, lo stesso colore che si vede
sulle pareti dietro di lei; è un modo scoperto, eppure efficace, di rimarcare
quanto sia precario, nonostante la sua postura stoica e lo chignon minimale,
l’equilibrio fra spazio professionale e spazio interiore.
Curiosa è poi la mania per
le ciabatte femminili, protagoniste di molte inquadrature. Chissà se c’entra la protesta virtuale risalente al 2014, quando le donne turche
cominciarono a pubblicare foto di ciabatte con l’ashtag #geliyorterlik
(#arrivalaciabatta), in segno di solidarietà verso la deputata femminista Aylin
Nazhaka, che per poco non tirò una scarpa agli avversari politici, stremata
dalla loro prepotenza maschilista. In ogni caso, trovo che ci sia in ballo
qualcosa di importante, nel mostrare queste calzature tutte simili, che
rimandano al focolare, che rimanda a una culla, e a una cella.
E
gli uomini? Gli uomini piangono, tutti (uno lo fa seduto sul cesso, mentre
indossa, non a caso, le ciabatte di una donna). In quelle lacrime c’è la loro
migliore natura, la possibilità di un’alleanza con le sorelle, le mogli, le
figlie, malgrado un’educazione sentimentale che li ha abituati a urlare,
costringere e abusare.
In
tal senso Yasin è il personaggio maschile più ambivalente e straziante; lui che
ordina alla sorella di non andare più dalla psichiatra e di preparargli il tè,
ma è capace di chiedere scusa; lui che interra la sofferenza della moglie
Ruhiye sotto un blaterare iroso, ma che ebbe l’ardire di definire “puro” il
cuore di lei, ragazza stuprata, in un goffo, inconscio tentativo di ribellarsi
ai dettami del potere.
*Da alcune ricerche scopro che “Bir Başkadır”, titolo originale della serie, è traducibile con l’espressione “tutta un’altra cosa”, e che potrebbe riferirsi alla canzone popolare "Bir Başkadır Benim Memleketim” (“Il mio Paese è tutta un’altra cosa”).
(aprile 2021)
Commenti
Posta un commento