Nomadland - Chloé Zhao (2020)
Nella vita “a togliere” di
Fern ogni piccola cosa ha una funzione sostanziale, e la sua mancanza, anche se
momentanea o risolvibile, incide sulla densità dei giorni: può renderli
affannosi o interminabili. Un piatto rotto non è un cumulo di cocci da spazzare
via, ma un insostituibile oggetto ferito, che merita il tempo di una meticolosa
riparazione; una gomma a terra non è solo una seccatura, ma la tappa
di una crescita, una prova di adeguatezza al mondo. Anche liberare l’intestino
non è l’atto imponderato e trascurabile che è per chi, seduto su un cesso
lucente, può ignorare l’ultima destinazione degli escrementi.
Non sorprende quindi che il guasto al motore del van costituisca la svolta drammatica della storia, un po’ come accadeva in "Wendy e Lucy", un bel film di Kelly Reichardt cui ho ripensato molto: il conto dal meccanico diventa il riscatto da saldare per la propria vitale mobilità. In "Nomadland" rappresenta anche il rassegnarsi alle logiche stringenti del “tutto ha un prezzo”, inclusa una casa con ruote su cui non incombe l’ombra del mutuo. Risiede qui la nota più amara e politica del film.
Eppure il van resta il simbolo potente, per quanto imperfetto e non
privo di contraddizioni, di una riappropriazione libera e solidale degli spazi,
di una ridefinizione di dignità. Fern e i suoi amici cercano di abitare nell’accezione
etimologica di avere: rifiutando di chiamare “casa” un immobile che non
riuscirebbero a pagare nell’arco di un’esistenza, vivono del poco che
effettivamente hanno.
A colpirmi, in questi racconti di peregrinazione, sono le immagini di eroico candore, di laica e resistente purezza. Del film di Reichardt ho conservato, a distanza di anni, l’inquadratura dei piedi di Wendy, in punta sopra le scarpe, per non toccare il pavimento sporco di un bagno pubblico. Del film di Zhao ricorderò, dopo aver dimenticato ahimè quasi tutto, la camicia da notte bianca di Fern.
(maggio 2021)
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