Omicidio nel West End - Tom George (2022)

 


Negli ultimi anni registi televisivi e cinematografici hanno maneggiato la narrativa di Agatha Christie come fosse un blocco di marmo grezzo da picconare, intaccare, levigare, per ricavarne una forma più elaborata e dignitosa. Basti pensare alle trasposizioni BBC di “Le due verità” (2018) e “Un cavallo per la strega” (2020), drammoni con ambizioni psicanalitiche, al Poirot di John Malkovich (“La serie infernale”, 2018) e a quello di Kenneth Branagh (“Assassinio sull’Orient Express”, 2017, e  “Assassinio sul Nilo”, 2022), uomini ambigui e crepuscolari. 

I personaggi di Christie non vengono più accolti nella loro caratterizzazione “piana”, senza chiaroscuri, tracciata con poche, schiette pennellate. Persino nella mitica serie britannica con David Suchet (comunque omaggiata da George attraverso la location di Florin Court), si fa strada, nelle stagioni più recenti, un garbuglio di dissidi etici, traumi, cupezze.

Trovo che queste operazioni di adattamento clamorosamente eretiche, percorse da una certa ossessione per la profondità, siano del tutto prive di sorpresa: noiosissime. Del resto, i grandi maestri dell’universo noir hanno già scardinato, del genere crime, tutto lo scardinabile.

“Omicidio nel West End” arriva come una deliziosa carezza per chi, come me, ama il microcosmo di Agatha Christie per ciò che è, e vi intravede, forse per un persistente senso di non-appartenenza al mondo contingente, un riparo, un giardino segreto, in cui la complessità della vita viene scomposta in elementi semplici, per poi essere restituita con sfrontata, beffarda levità.

La ragione principale per cui adoro i gialli classici è il modo in cui la morte, costante indispensabile, viene spogliata di ogni segno tragico. Nessuno si strugge o riflette sulla caducità dell’esistenza, nelle storie di Christie, non c’è nulla che possa davvero pungolare una nostra recondita angoscia, o incoraggiare qualche filosofica elucubrazione. Ed è appunto questa trascuratezza, questo ostinato distacco dai meandri angusti della realtà che l’assassino, nel film di Tom George, tenta di sopprimere. Invano, per fortuna.

Sprezzante ma inattaccabile è la dichiarazione con cui il personaggio di Leo Köpernick liquida gli whoddunit: “you’ve seen one, you’ve seen ‘em all”. La struttura diegetica si ripete di fatti sottoforma di cliché, riservando lo shock alle ultime pagine, con la scoperta del colpevole. Non solo, anche i personaggi ricorrenti, come il detective e il suo aiutante, ripropongono le stesse stereotipie. Eppure è questo il bello: la certezza che Poirot sistemerà sempre maniacalmente gli oggetti sulla propria scrivania, che Hastings ancora una volta non farà funzionare davvero le sue celluline grigie, che Miss Marple non si sposerà né lascerà la sua casetta a St. Mary Mead, mai.

Seguendo il modello, George delinea i suoi protagonisti, l’ispettore Stoppard e la spalla Constable Stalker (un nome, un programma), calcandone con tenerezza le ridondanti, immutabili debolezze: l’impulsività e la logorrea incontenibile di lei, la svogliatezza malinconica e alcolizzata di lui.

Ma vedete…non sono forse le solite cose che ci fanno affezionare a certi personaggi, a certe persone?


(gennaio 2023)

Commenti

  1. Un film piccolo ma adorabile, mi è piaciuto moltissimo il gioco metatestuale portato avanti dal regista. Sicuramente meglio di quei mattoni di Branagh, ma ci vuole poco!

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    1. Scusami leggo solo ora!

      Sì, concordo, un piccolo film adorabile, una coperta calda, come hai ben scritto tu.

      Grazie d'esser passata!

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